IL VECCHIO E LA “PIAVE”
Agli inizi degli anni ’90 pescavo con il mio socio dell’epoca, tale “Cambogia”, sul Piave, fiume sacro alla patria e caro a noi veneti.
Cambogia era un giovane uomo, io un ragazzo, e la vita ci aveva uniti per destino analogo e beffardo. Due uomini soli e persi che condividevano silenzi che a volte valgono più di mille parole, due strani personaggi che spendevano la totalità del loro tempo libero immersi nella natura alla ricerca di un sussulto primordiale che li facesse sentire vivi.
La Piave, come dicono gli anziani, era lì da tempo immemore e noi ci perdevamo fra le sue morte e gli irraggiungibili contro argini, ogni week end dal venerdì alla domenica. Erano anni di esplorazioni solitarie durante le quali non abbiamo mai incontrato molta gente, solo sporadiche figure caratteristiche e a volte significative.
Voglio raccontarvi in questo breve aneddoto del mio incontro surreale, immerso nelle nebbie di un’alba di primavera, con “il vecchio in bicicletta”.
Capitava che noi si preparasse la sessione di pesca dopo aver studiato con attenzione l’ambiente e il fiume, pianificando una precisa strategia d’identificazione dello spot e di pasturazione preventiva. Per questo motivo ci trovavamo spesso ad esplorare nuovi settori selezionando quelli più ameni e isolati da quel concetto di umanità da cui, in pratica, cercavamo di fuggire.
Il mio malessere ha origini antiche, nasce da grandi dolori e perdite, e dalla continua battaglia in corso in un cervello che non trova le risposte alle mille domande che lo perseguitano. Per questo motivo a vent’anni e poco più mi trovavo sperduto lungo l’argine di un fiume, alle 5 del mattino, senza una meta precisa.
A un certo punto vedemmo apparire dalle nebbie una strana figura in bicicletta. Nelle ristrettezze della misera strada arginale fummo costretti a fermarci per lasciar passare questo “cavaliere antico” che avanzava su una vecchia bici da uomo dove si notava la falce, posta in parallelo al tubo orizzontale del telaio, e la fascina d’erba appena tagliata di traverso sul medesimo.
“Buon giorno maestro!” esclamai.
“N’dove n’deo boce?” (dove andate ragazzi?) rispose.
In questo modo paradossale iniziò uno dei dialoghi più interessanti della mia vita con uno sconosciuto di cui non conosco neppure il nome.
Parlammo per diversi minuti della Piave, della sua sacralità e della guerra, della vita contadina sulle sue sponde e anche della pesca, quella fatta per vivere nei periodi più poveri che hanno caratterizzato la mia terra in passato.
Il nostro interlocutore era un uomo vero forgiato dal tempo, di età indefinita e vestito di una camicia di flanella e di un gilet di lana che si contrapponeva alla tecnicità dei nostri indumenti militari mimetici, e al nostro bagaglio di pesca sportivi.
Dopo diversi minuti di oblio narrativo in cui cercammo di carpire più possibile dall’esperienza di quell’anziano sospeso nel tempo, i discorsi si fecero sempre più precisi andando a parare su fatti di guerra vissuti in prima persona.
Una frase mi colpì molto e mise in moto tutte le mie conoscenze di liceale unite alla passione che ho sempre avuto per la storia di guerra, le armi e gli ideali patriottici.
Ci parlò delle navi austriache che bombardavano dal mare Motta di Livenza e della sua appartenenza, come guastatore al corpo speciale dei “Caimani della Piave”, una branca degli arditi specializzati in azioni anfibie e di contrasto sul fiume.
Ci parlò di quella settimana passata tutta immerso nel fiume per non farsi scoprire dagli analoghi incursori nemici.
Ci parlò di storie senza tempo, di coraggio, di sacrificio e di sprezzo del pericolo. Tutti argomenti forti, descritti con l’occhio lucido di chi li ha vissuti e portati addosso per una vita come un fardello pesantissimo che non puoi mai poggiare a terra.
Fino a quando il mio cervello rapito dall’estasi della curiosità non elaborò il concetto peraltro evidentissimo che si stesse parlando della grande guerra, 1915-1918!
“Maestro, ma lei era un ardito?”
Il vecchio della Piave mi guardò smarrito e incredulo…come a farmi capire che me lo aveva già detto e che io non l’avevo compreso…
“Maestro, mi scusi…ma quanti anni ha?”
“Novantotto!”
Un numero che mi cadde sulla testa come un macigno! 98 primavere, due guerre sulle spalle, alle 5 del mattino a chilometri dalla casa più vicina, in camicia, in bicicletta, a falciare erba per un coniglio!
Poche volte mi sono sentito così inutile e insignificante come in quella…e Cambogia tradiva nell’occhio lucido la mia stessa angoscia e perplessità. Avevamo la storia in carne ed ossa di fronte a noi e avevamo potuto attingere alla verità dalle parole di chi l’ha vissuta in prima persona.
Un incontro che mi ha segnato profondamente e che a volte racconto quando capisco che chi ascolta può capire la mia emozione e la lacrima che mi scende sul volto, senza giudicarmi. E voi saprete cogliere l’intensità di questo racconto vivendolo come se vi foste trovati lì di fronte alla storia e all’imbarazzante semplicità di un vecchio uomo della Piave.
Un uomo d’altri tempi, un uomo al cospetto del quale i problemi di questa società dove non manca niente, ma manca tutto, diventano ridicole barzellette di cui non resterà traccia nel tempo.
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