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L'ultima chance...

L’ ULTIMA CHANCE

 

Dopo una sessione rocambolesca e sfortunata, c’è sempre un attento esame sul nostro operato. Da questo partono gli stimoli necessari ad affrontare ancora una volta, alle medesime condizioni, la stessa acqua. Questa però è l’ultima chance….

 

Non mi ero certo perso d’animo. Dopo un primo momento di scoramento totale avevo cercato, il più lucidamente possibile, di accertare i miei errori e le possibili cause. la risposta più chiara e sintetica riassumeva che avevo commesso errori di superficialità, avevo sottovalutato le possibili insidie, ero stato precipitoso, e non avevo riflettuto abbastanza circa le scelte tecniche. Non ero nelle condizioni psico-fisiche più adeguate ad affrontare una sessione nella quale serviva almeno un minimo di concentrazione. Un fattore di notevole peso risiedeva nel fatto che per quasi tre mesi ero stato totalmente rapito dalla consegna di una grossa commessa (di lavoro, che cosa avevate capito!) che mi aveva spremuto come un tubetto di maionese, cosicché all’arrivo della vacanza tanto agognata, l’ultima cosa che in realtà avrei dovuto fare, era andare a pesca. Non era questo di certo il momento adatto di dormire per una settimana con l’assillo di esser svegliati da un momento all’altro. Non avevo calcolato che il livello di stress nel quale mi trovavo avrebbe potuto creare delle difficoltà…Ma come al solito nel carpfishing, come nella vita, c’è sempre un’altra possibilità! Avevo pianificato altre quattro notti nello stesso posto, sullo stesso lago. Avevo una ricorrenza nei miei pensieri, quasi un’ossessione: “non puoi sbagliare!”.

Incominciai dalla base, ossia lavorai un po’ meno. Forse, per una sopravvenuta certa età, avevo scoperto che il carpfishing non era certo una pesca fatta di puro relax, soprattutto quando ci si impegna nell’attività notturna. Quindi lavorai prima di tutto su me stesso, consapevole che le mie precedenti esperienze mi avrebbero consentito di non sbagliare. L’inquadramento degli errori riscontrati ed il loro ripercorso, mise in evidenza una reale sottovalutazione dei possibili rischi derivati dalla pesca in un lago naturale. Sapevo che Tutti i laghi naturali vanno affrontati con una sorta di timore reverenziale, vanno temuti e rispettati. Bisogna tener bene a mente che i loro fondali, dalle origini più disparate e diverse, non vengono quasi mai ripuliti, come invece può succedere con una certa frequenza in certe acque private, anzi il più delle volte, a quelli già esistenti, vengono aggiunti altri ostacoli, come nel caso di legnaie per la riproduzione del persico, o addirittura interi alberi, trasportati da un fiume immissario. La stessa ricognizione con il sonar può, a volte, non essere del tutto soddisfacente ed efficace nel tracciare una sorta di “mappa dei pericoli”. Molte volte la presenza di piccoli massi, rami di modeste dimensioni, gradini di tenue pendenza ricoperti da pietre, oppure l’insidia esasperante delle cozze, può passare inosservata e quindi rappresentare la classica buccia di banana sulla quale diventa troppo facile scivolare. Come porsi allora nell’affrontare una situazione di siffatto genere? Uno degli errori più comuni è la scarsa confidenza con la barca. Un uso appropriato dell’imbarcazione in questo contesto risulta un primo vero passo verso la cattura. Non mi sto certo riferendo alla posa dei terminali a lunga distanza, ma al recupero del pesce. Ragionando, ma soprattutto pescando, con i carpisti che hanno fatto della pesca nei grandi laghi naturali quasi una ragione di vita, mi sono fatto l’idea che il recupero della preda eseguito dalla barca è pressoché indispensabile per raggiungere un rateo di successo molto elevato. Fino a qualche anno fa ero fermamente convinto che un recupero indistinto ed incondizionato dalla barca fosse deleterio, in quanto mi accorgevo che in barca i tempi di lotta aumentavano esponenzialmente, aumentando di conseguenza i rischi di slamatura. Mi sbagliavo, come mi sbagliavo ad intendere il combattimento da una visione unilaterale. Le mie convinzioni sono mutate nel comprendere altre tecniche di recupero. Ora mi spiego meglio. Bisogna innanzitutto premettere che una certa confidenza con l’imbarcazione è da consigliarsi sempre nell’affrontare i grandi laghi, e che questa non può essere scissa dall’uso di tutte le misure di sicurezza. É sempre bene avere padronanza nell’uso dei remi e nella guida del motore elettrico (sembra scontato ma ho conosciuto ragazzi che avevano di queste difficoltà). In caso di scarsa confidenza con questa pratica, è da sconsigliare l’inoltrarsi in queste circostanze in solitudine. Sarebbe sempre bene uscire in coppia, il fattore sicurezza è così messo in primo piano, così come il recupero che risulterà più preciso e con meno sbavature. I vecchi del mestiere, faranno una comprensibile smorfia di disappunto, ma anche dal mio punto di vista è bene agire in coppia, soprattutto di notte. Personalmente, quando ho la possibilità, attendo sempre il mio partner…A lui il compito di dirigere l’imbarcazione ed infine il guadino e scusate se è poco! Il discorso riguardante il combattimento, va diviso in due categorie: 1) recupero forzato, (pompato) ossia riguardante il tradizionale combattimento da riva, nel quale forziamo, tirando il pesce verso di noi. 2) recupero non –forzato, che riguarda nel modo specifico l’azione dal natante, in questo caso non pomperemo il pesce se non a distanza di combattimento raggiunta. In seguito spiegherò nei dettagli l’intera operazione. Sono giunto ad asserire, come regola generalmente valida, che nel combattimento dalla barca non si deve forzare la preda, dovremo essere noi ad andarle incontro. Tale regola abbisogna di alcuni espedienti tecnici per essere convalidata, primo su tutti il sasso a perdere. Sono da tempo un cultore di tale pratica e sono sicuro che in molti ne abbiano già assaporato la bontà, almeno a giudicare dalle pietre mancanti sulle spiagge dei laghi! (scherzo ovviamente), ma soprattutto dagli esuberi di fascette plastiche per cablaggi elettrici disseminate, (ora non sto più scherzando) dei quali io stesso ne prospettavo l’uso, in un mio vecchio articolo, nel quale devo essere stato frainteso perché ritenevo scontato che tali ritagli dovessero entrare nella nostra spazzatura e invece…Avevo in mente di preparare a casa i miei sassi, così da non trovarmi impreparato e a doverli cercare sul posto. Un sasso a perdere deve avere un eccellente potere auto ferrante. Per possedere questa caratteristica, abbisogna di un peso di almeno 300 grammi. Lavoro in edilizia e non è difficile per me, reperire presso il mio rivenditore edile, dei sassi già vagliati nella forma e nel peso. Quindici chili di puro potere ferrante, divisi su 50 pietre di forma tondeggiante (vedremo in seguito l’importanza della forma), per un totale medio di 300 grammi a pezzo. Ognuno di essi venne preparato con l’ausilio di una piccola mola (detta anche flessibile) dotata di un disco diamantato, con il quale incidere un piccolo taglio, profondo circa 5 mm, (vedi foto). Avevo nel frattempo già preparato degli occhielli a forma di omega, usando del fine filo di ferro ricoperto di guaina in plastica verde, questi avrebbero trovato alloggio lungo il solco formato nel sasso e sarebbero stati bloccati da una sigillatura a base di termo-adesivo (colla a caldo) aiutati nell’operazione dall’apposita pistola (vedi foto). L’operazione per dirsi conclusa aveva solo bisogno della rimozione tramite un piccolo coltellino tagliente (tipo taglia balsa) delle piccole sbavature ed eventuali eccedenze di colla, questo lavoro di finitura avrebbe di certo scongiurato eventuali rischi di groviglio. Mi ero così creato una buona scorta di “piombo” a perdere, con la quale avrei sicuramente “disturbato” meno il mio ambiente di pesca. Per congiungere questa zavorra (300gr) avevo bisogno di una giunzione che mi permettesse di allamare la carpa e conseguentemente, sotto i colpi delle prime testate, il distacco del peso. Inoltre, dovevo disporre di un collegamento che mi consentisse un recupero di tutto il terminale, sasso compreso, qualora avessi voluto farlo. Prove ripetute mi avevano insegnato che il miglior attacco per la zavorra veniva dato da un filo in nylon da 0.22mm di diametro. Questo doveva esser collegato alla lead-clip di sicurezza nel minor tratto possibile, cosicché il sasso risultasse adiacente alla clip. In questo modo, i possibili grovigli sarebbero venuti sicuramente meno. Rimanendo in tema di anti-garbuglio e riprendendo il fattore riguardante la forma del sasso, potremo affermare che una forma sferica o perlomeno quanto più tondeggiante possibile, scongiura i possibili attorcigliamenti del terminale lungo la lenza madre, durante la fase di calata dell’innesco. Ciò accade inevitabilmente qualora ci improvvisassimo sul posto, usando le forme più strane e disparate di sasso. La non adeguata idrodinamicità della forma, trasmette movimenti che si trasformano in evoluzioni imprevedibili del sasso, le quali si ripercuotono istantaneamente sul nostro terminale inficiandone infine la sua presentazione. Questo problema non sussiste qualora operassimo in acque relativamente basse (entro i 2 mt), maggiori profondità risentono esponenzialmente di questo problema. Figuriamoci se potevo permettermi di sottovalutare questo aspetto! Io che avevo intenzione di pescare dai 6 ai 9 metri di profondità!  Per rendere perfetta questa funzionalità, c’era ancora bisogno di un paio di espedienti. Il primo riguardava il terminale (soprattutto se morbido) il quale andava corredato nella parte iniziale, verso la girella di attacco, di un tubetto conico di silicone. Poteva anche esser sensato, nei terminali morbidi e particolarmente lunghi, l’uso di un fiocco di P.v.a. con il quale tenere raggruppato il finale nelle fasi di calo. Il secondo aspetto era dedicato all’azione vera e propria di calata, la quale doveva essere eseguita, rilasciando il filo in maniera lineare, senza scatti, aiutati magari da una taratura adeguata della frizione o dal baitrunner, a questo doveva affiancarsi una traslazione continua e laterale della canna, questo avrebbe permesso al terminale di non trovarsi mai in linea con la lenza madre, scongiurandone il contatto. Pianificate a tavolino le ultime fasi che coincidevano con l’eventuale cattura ed il suo recupero, ero pronto a giocarmi l’ultima chance…

 

…Il mio innesco riposa oramai da ieri pomeriggio sul fondale antistante una punta ricoperta da canneti, a 6 metri di profondità, distante circa 250 metri dal punto nel quale anch’io sto riposando. Il mio non è il sonno profondo dell’uomo appagato, ma è piuttosto un sonno   sconsolato dalla rassegnazione, quella che ti coglie le ultime ore, prima che sorga il sole, dopo l’ultima di quattro notti, quando le tre che l’hanno preceduta le hai passate solo a sperare... Poche ore mi dividono dalla disfatta…Poi, all’improvviso, il led della centralina, dipinge la cameretta del cottage, il suono ha il colore rosso delle pareti impresse di luce artificiale. Quel suono ora ha lo stesso colore delle pareti del mio cuore, il colore nell’interno delle mie vene. Mentre credo di vivere nel sogno. Non può esser vero che la realtà mi riservi una ultima chance…Non posso ancora averlo pensato e sono già fuori sopra quello stretto pontile che oramai conosco bene e che ora mi sembra non finire mai…La mia mente s’impone di rileggere la parte imparata a memoria: “stai calmo e non tirare!” Prendo la canna in mano, non ferro, metto solo in tensione la lenza e sento che un pesce forte, dall’altro capo sta nuotando impazzendo, taro stringendo, ma non troppo, la frizione e lascio che il pesce vada a sfogare le sue paure… Arrivano da dietro, puntuali come le rate di un mutuo, Max e Titti, (i miei cartoni animati preferiti) uno mi veste con la giacca a vento, l’altro, sopra, ci infila il giubbetto di salvataggio. Fatico un bel po’ nell’impormi di stare calmo e non reagire, mentre il pesce continua a “sbranare” filo da una bobina che “urla” di dolore. Salgo in barca davanti, per primo, seguito da uno dei miei amici. La linea di nylon ci da la rotta in direzione del pesce e mi limito a far rientrare filo nel mulinello, pensando che questo sia già un grande risultato e lasciando la frizione aperta. Velocemente siamo in zona, a circa 30 metri, sepolta ancora nell’oscurità, vedo un’onda nella quale immagino lo sforzo dell’animale acquatico... Stringo un po’ la frizione e finalmente ne sento il peso… La carpa, a causa delle lunghe fughe già percorse e per merito del sasso che si è staccato puntualmente e che non ha fatto sentire quello stato di forzatura che tanto spaventa le nostre catture, è già in superficie e stremata, una rete l’avvolge…Il ritorno  silenzioso di rispetto e umido di carpe catturate, è un’ascesa verso l’olimpo della soddisfazione, nella quale, tutte in fila, mi sorridono  le ore passate a pensare e mi applaudono quelle spese a prepararmi, mente i lampioni   sulla strada neanche troppo distante, come riflettori, sul nostro palcoscenico si spengono , stanno a dirci che lo spettacolo è finito, è giunta l’alba. Max ha preparato il thè…Buongiorno ragazzi!